Pompei
Interno giorno
25 ottobre
ore 9.00
79 d.C.
Non è la sceneggiatura di un film, ma la storia di una realtà antica che oggi, prorompente, torna viva e contemporanea. Due corpi la racchiudono. Due calchi in gesso che, come un fermo immagine di duemila anni fa, rendono eterni due uomini rimasti uccisi, il padrone e il suo schiavo, che ora rinascono dalle ceneri di Pompei. Sono le vittime di quella che è forse una delle calamità naturali più famose della storia, l’eruzione del Vesuvio nel 79 d.C.
Durante la prima fase eruttiva, quando l’antica città romana venne ricoperta dai lapilli, le prime vittime furono quelle intrappolate negli ambienti, investite dai crolli provocati dal materiale vulcanico depositatosi fino a un’altezza di tre metri. Di queste persone sono rimasti soltanto gli scheletri. Poco dopo, quando la città venne colpita dal flusso piroclastico che riempì gli spazi non ancora invasi dai materiali vulcanici, le persone morirono all’istante per shock termico. I corpi rimasero nella posizione in cui erano stati investiti dal flusso, e il materiale cineritico solidificatosi ne ha conservato l’impronta dopo la decomposizione.
Mentre tutto questo accadeva la città era in fermento, i pompeiani stavano cercando di salvarsi la vita, ma, poco prima, erano immersi nelle loro consuete attività, così come dimostrano tutti i ritrovamenti che restituiscono le tracce della vita quotidiana nelle botteghe, per le strade, nelle terme, nelle domus e nelle ville, come quella suburbana del Sauro Bardato a Civita Giuliana, a 700 metri da Pompei, dove uno scavo in corso dal 2017 ha riportato alla luce i resti di una lussuosa abitazione che, con una grande terrazza panoramica, dominava il Golfo di Napoli e di Capri. È proprio sotto questa terrazza, nel criptoportico, che sono stati trovati i corpi dei due fuggiaschi, quello di un uomo abbiente, il padrone, e, con molta probabilità, quello del suo schiavo.
La scoperta è resa possibile da un’antica tecnica, quella dei calchi in gesso ideata nella seconda metà dell’Ottocento da Giuseppe Fiorelli, utilizzata fino ai celebri calchi di Amedeo Maiuri degli anni Cinquanta, sperimentata anche negli anni Settanta e oggi di nuovo usata dal Direttore del Parco Archeologico di Pompei Massimo Osanna. Il metodo prevede la realizzazione di una colata di gesso liquido nelle cavità lasciate dai corpi che si sono decomposti all'interno del materiale vulcanico. Una volta che il gesso si è solidificato, il terreno circostante viene rimosso per portare alla luce la forma ottenuta. «L'archeologia non sarà più studiata nei marmi o nei bronzi, ma sopra i corpi stessi degli antichi, rapiti alla morte, dopo diciotto secoli di oblio», scrive Fiorelli il 13 febbraio 1863.
Dall’Ottocento a oggi, grazie a questa innovativa tecnica, a Pompei sono stati realizzati oltre cento calchi. Col passare del tempo, dalle prime sperimentazioni ad oggi, il metodo della colatura del gesso si è via via perfezionato e il risultato di oggi ne è la sorprendente prova: i nuovi calchi sono talmente ricchi di dettagli da impressionare nella loro capacità di catturare perfettamente le forme e le curve, i lineamenti, le pieghe dei panneggi, le membra, le mani con le vene che sembrano ancora pulsare. La capacità di restituire tutti i dettagli è ben visibile nei due nuovi calchi in gesso.
La prima vittima è, con grande probabilità, un ragazzo tra i 18 e i 23 anni, alto 1,56 metri. Ha il capo reclinato, con i denti e le ossa del cranio ancora parzialmente visibili; indossa una tunica corta, di lunghezza non superiore al ginocchio, di cui è ben visibile l’impronta del panneggio sulla parte bassa del ventre, con ricche e spesse pieghe. Le tracce di tessuto suggeriscono che si tratti di una stoffa pesante, probabilmente fibre di lana. Il braccio sinistro è leggermente piegato con la mano, ben delineata, appoggiata sull’addome, mentre il destro è appoggiato sul petto. Le gambe sono nude. Vicino al volto vi sono frammenti di intonaco bianco, trascinato dalla nube di cenere. La presenza di una serie di schiacciamenti vertebrali, inusuali per la giovane età del ragazzo, fa pensare che potesse svolgere lavori pesanti: probabilmente era uno schiavo.
È durante la realizzazione di questo primo calco che è avvenuta la scoperta delle ossa di un piede, che ha rivelato la presenza di una seconda vittima. È in una posizione completamente diversa rispetto alla prima, ma attestata in altri calchi a Pompei. Il volto è riverso a terra, a un livello più basso del corpo, e il gesso ha delineato con precisione il mento, le labbra e il naso, mentre si conservano parzialmente a vista le ossa del cranio. Le braccia sono ripiegate con le mani sul petto, mentre le gambe sono divaricate e con le ginocchia piegate.
L’abbigliamento è più articolato rispetto all’altro uomo. Sotto il collo della vittima, vicino allo sterno dove la stoffa crea evidenti e pesanti pieghe, si conservano infatti impronte di tessuto ben visibili riconducibili a un mantello in lana che era fermato sulla spalla sinistra. In corrispondenza della parte superiore del braccio sinistro vi è anche l’impronta di un tessuto diverso, quello di una tunica, che sembrerebbe essere lunga fino alla zona pelvica. Anche vicino al volto di questa vittima vi sono frammenti di intonaco bianco, in questo caso probabilmente crollati dal piano superiore. La robustezza del corpo, soprattutto a livello del torace, suggerisce che anche in questo caso sia un uomo, più anziano però rispetto al primo, con un’età compresa tra i 30 e i 40 anni e alto circa 1,62 metri.
"Ritorno adesso da Pompei ed ho l’animo pieno di mestizia per uno spettacolo miserando […] sono morti da diciotto secoli, ma sono creature umane che si vedono nella loro agonia. Lì non è arte, non è imitazione; ma sono le loro ossa, le reliquie della loro carne e de’ loro panni mescolati al gesso; è il dolore della morte che riacquista corpo e figura. Io la vedo quella meschina, io odo lo strido con cui chiama la mamma, e la vedo cadere e dibattersi […] Finora si è scoverto templi, case ed altri oggetti che interessano la curiosità delle persone colte, degli artisti e degli archeologi; ma ora tu, o mio Fiorelli, hai scoverto il dolore umano, e chiunque è uomo lo sente", scrive Settembrini il 13 febbraio 1863.
Sono celebri i numerosi calchi realizzati durante il Novecento, generalmente lasciati a vista sul luogo del rinvenimento in vetrine o protetti da tettoie; tra questi i tredici corpi, ancora oggi in situ, da cui prende nome l’Orto dei Fuggiaschi. I calchi sono anche oggetto di ispirazione per poeti e artisti, tra i quali Primo Levi, con la poesia “La bambina di Pompei”, e Roberto Rossellini, che dedica alla scoperta di alcuni calchi una celebre scena del “Viaggio in Italia”.
“Questa scoperta straordinaria dimostra che Pompei è importante nel mondo non soltanto per il grandissimo numero di turisti – dichiara il ministro per i beni e le attività culturali e per il turismo Dario Franceschini – ma perché è un luogo incredibile di ricerca, di studio, di formazione. Sono ancora più di venti gli ettari da scavare, un grande lavoro per gli archeologici di oggi e del futuro”.
“Uno scavo molto importante quello di Civita Giuliana – dichiara il Direttore del Parco Archeologico di Pompei Massimo Osanna – perché condotto insieme alla Procura di Torre Annunziata per scongiurare gli scavi clandestini e che restituisce scoperte toccanti. Queste due vittime cercavano forse rifugio nel criptoportico, dove invece vengono travolte dalla corrente piroclastica alle 9 di mattina. Una morte per shock termico, come dimostrano anche gli arti, i piedi, le mani contratti. Una morte che per noi oggi è una fonte di conoscenza incredibile”.
(Foto di Luigi Spina)
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