Biblioteca Estense Universitaria - Bibbia di Borso d'Este
Descrizione
La Bibbia di Borso d’Este è tra le opere più note conservate nella Biblioteca Estense Universitaria di Modena. Si tratta di un manoscritto in due volumi, su pergamena, in-folio, per un totale di 1.202 pagine miniate. La realizzazione della decorazione si deve a una squadra di miniatori guidata da Taddeo Crivelli (Ferrara, 1425 - Bologna, 1479), uno dei più grandi miniatori del Rinascimento, allievo di Pisanello e tra i principali artisti della corte di Borso d’Este, e da Franco dei Russi (Mantova, attivo tra il 1455 e il 1482). A occuparsi della scrittura fu il copista Pietro Paolo Marone e della rilegatura antica il cartolaio Gregorio Gasperino.
I molti collaboratori minori aiutarono i due maestri soprattutto nelle fasi preparatorie, ma alcuni si occuparono anche di dettagli. Fu un lavoro che si svolse per circa 6 anni, dal 1455 al 1461.
La Bibbia di Borso si presenta con pagine inserite entro raffinate cornici decorate con motivi vegetali a girali e il testo disposto lungo due colonne. Nella cornice si possono incontrare miniature ad illustrare gli episodi narrati, piante e animali descritti in dettaglio, oltre agli stemmi estensi e a emblemi riferiti a imprese legate al duca e allo Stato ferrarese.
Le essenze vegetali descrivono episodi raccontati nei testi biblici (per esempio il grano, l’orzo, l’olivo e la vite, tutte piante ben conosciute alle persone del Rinascimento e di Ferrara poiché coltivate anche in Italia), ma vi sono anche quelle delineate con funzione puramente decorativa, non necessariamente legate a esigenze narrative, oltre a frutti e fiori che assumono spesso forme stravaganti.
Ancora, gli animali presenti offrono un’amplissima gamma di esemplari: sono stati censiti, in particolare, 1.450 animali reali, ovvero esistenti in natura, sebbene siano presenti anche animali fantastici. Come nel caso delle piante, sono inseriti per scopi illustrativi, ma spesso rispondono semplicemente all’esigenza di offrire al duca Borso, che era un grande amante della natura e della caccia, animali che potessero piacergli: ciò spiegherebbe l’abbondanza di specie tipiche delle paludi e dei boschi di Ferrara, oltre a quelle che erano oggetto di caccia. Un elevato grado di realismo caratterizza la loro rappresentazione, segno che gli artisti ne avevano una conoscenza diretta. Non mancano, poi, le specie esotiche, che potevano essere viste nei serragli della corte, o semplicemente, essere riprodotte sulla base dei disegni di chi le aveva viste dal vero.
La Bibbia di Borso d’Este fu una delle imprese più costose del suo tempo: la spesa finale fu di 5.609 lire marchesane, una somma straordinaria e difficilmente confrontabile con quella di altri manoscritti. La gran parte della cifra fu impiegata per conferire ricchezza alle decorazioni: per le miniature, eseguite con abbondanza di oro e di pigmenti pregiati, per acquistare la pergamena, per la cucitura e la doratura dei fascicoli, per la cassa di legno che doveva contenere i volumi, per i fermagli d’argento.
Un’impresa del genere, ovviamente, non era stata pensata per la mera realizzazione di un libro che il duca avrebbe consultato nel chiuso delle sue stanze: la Bibbia di Borso doveva essere la dimostrazione materiale della sua magnificenza.
Dopo la devoluzione di Ferrara allo Stato Pontificio, nel 1598, il destino della Bibbia fu comune a molti altri capolavori della corte estense: il codice seguì la famiglia nella nuova capitale del ducato, Modena, dove rimase fino all’Ottocento. Nel 1800 fu portata via una prima volta: il duca Ercole III, in esilio da Modena, portò con sé il prezioso codice a Treviso. Dopo la scomparsa del duca, la Bibbia passò alla figlia Maria Beatrice Ricciarda d’Este, divenuta poi moglie dell’arciduca Ferdinando d’Asburgo. La Bibbia tornò a Modena diversi anni dopo la restaurazione, nel 1831, ma vi rimase poco, dal momento che nel 1859 il duca Francesco V d’Asburgo-Este, prima di lasciare definitivamente il ducato che sarebbe stato annesso al nascente Regno d’Italia, portò con sé in Austria molti codici, tra i quali anche la Bibbia di Borso. Dieci di questi sarebbero rientrati in Italia nel 1869 a seguito di un accordo tra il governo italiano e i sovrani degli stati preunitari, ma la Bibbia, il Breviario di Ercole I d’Este e l’Officio di Alfonso furono riconosciuti legittima proprietà degli Asburgo. Nel 1918 l’ultimo proprietario, Carlo I, dopo la prima guerra mondiale lasciò l’Austria per andare in esilio in Svizzera, portando con sé la Bibbia: dopo la sua scomparsa, la vedova, Zita di Borbone-Parma, decise di mettere in vendita il codice sul mercato antiquario.
Venutone a conoscenza il governo italiano, Giovanni Gentile, nominato pochi mesi prima ministro dell’istruzione nel primo governo Mussolini, fece sapere che l’erario non disponeva della somma per acquistare l’opera. Tuttavia, arrivò in soccorso del suo paese l’industriale Giovanni Treccani, divenuto celebre fondatore dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana. Fu così che Treccani nel 1923 acquistò la Bibbia per tre milioni e trecentomila franchi francesi, equivalenti a circa quattro milioni di euro attuali, e comunicò a Mussolini il suo intento di donare il codice allo Stato. Quattro città si candidarono a riceverlo: Modena (in quanto ultimo luogo di conservazione prima che il manoscritto fosse portato fuori dall’Italia), Roma (in quanto capitale), Milano (in quanto città dove il donatore risiedeva) e Ferrara (città di origine). Fu il direttore della Biblioteca Estense di allora, Domenico Fava, a far sì che la Bibbia tornasse a Modena tanto che, alla fine, il governo decise in favore della cittadina emiliana. La donazione venne formalmente accettata nel 1924: nel mese di maggio la Bibbia raggiunse la Biblioteca Estense. E così le sue peregrinazioni trovarono una lieta conclusione.
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